IL PRANZO DELLA DOMENICA: Giornata della Terra, diamo uno sguardo al nostro futuro
Oggi l’appuntamento ormai fisso con questa rubrica assume un carattere speciale. Dal 1970, infatti, ogni 22 aprile (a un mese e due giorni dall’equinozio di primavera) si celebra in tutti i Paesi membri delle Nazioni Unite l’Earth Day, giornata dedicata al nostro pianeta per sottolineare la necessità della conservazione delle risorse naturali della Terra. È fondamentale ragionare su questo, perché il cibo che arriva sulle nostre tavole dipende proprio dall’utilizzo che facciamo di queste risorse. La domanda, quindi, che viene naturale porsi in questa giornata è: stiamo davvero facendo di tutto per salvaguardarle? Come si può ben comprendere, rispondere è tutt’altro che semplice. Cerchiamo di capire insieme, quindi, la “ricetta” migliore.
Iniziamo con qualche dato che ci aiuta a inquadrare la situazione. Oggi, nel mondo, ci sono circa 7,6 miliardi di persone, e quasi tutti i demografi sono concordi nel prevedere che nel 2050 la Terra dovrà ospitarne circa 10 miliardi. Ben 2,5 miliardi in più in appena 30 anni. Inoltre, la maggior parte di queste persone apparterrà a quella che potremmo definire una “classe media”, aumentando sempre di più la disparità fra ricchi e poveri. Questo si traduce in un fabbisogno alimentare che risulterà praticamente raddoppiato, anche se la Terra potrà mettere a nostra disposizione sempre lo stesso numero di risorse naturali.
Per prepararsi ad affrontare questa situazione, l’umanità ha ancora un po’ di tempo, ma meno di quanto possa sembrare. Le posizioni che vengono assunte a riguardo sono fondamentalmente due, e derivano entrambe da tesi sostenute già nel secolo scorso. La prima è quella di William Vogt, considerato tra i fondatori dell’ambientalismo moderno e autore di Road To Survival, Vogt sostenne nel corso della sua vita che l’uomo non doveva gioire del livello di benessere raggiunto, bensì preoccuparsene, perché se non avesse ridotto in maniera decisa i propri consumi e non avesse messo un controllo all’aumento demografico, la conseguenza sarebbe stata la distruzione di tutti gli ecosistemi del pianeta e, quindi, del pianeta stesso. Ancora oggi, i seguaci delle teorie di Vogt sostengono queste tesi e invocano a gran voce un ritorno a uno stile di vita più rispettoso dell’ambiente e più morigerato. Contrapposta a questa visione del problema, c’è invece quella di Norman Borlaug, Premio Nobel per la Pace nel 1970 e padre della “Rivoluzione Verde” degli anni ’60. Borlaug sostenne che i progressi dell’uomo in campo tecnico e scientifico potevano aiutarlo a risolvere il problema della crescente richiesta di risorse e promosse di conseguenza la combinazione tra colture ad alto rendimento e tecniche agronomiche all’avanguardia in grado di aumentare la produzione agricola in tutto il mondo.
Secondo il mio parere, in medio stat virtus. Vale a dire che certamente il progresso tecnologico e scientifico ci permette oggi di raggiungere in ambito agricolo risultati una volta impensabili, ma allo stesso tempo non possiamo continuare a sfruttare le risorse naturali senza alcun freno e senza porci domande fondamentali sul nostro futuro. D’altronde, lo stesso Borlaug nel suo discorso di accettazione del Nobel all’Accademia di Stoccolma, disse che la Rivoluzione Verde era “un successo temporaneo nella guerra dell’uomo contro la fame e la deprivazione” e che aveva dato all’uomo giusto un po’ di “spazio per respirare”. Spazio che si sta rapidamente esaurendo e che, quindi, richiede la messa in campo di nuove idee.
Questa Rivoluzione, infatti, ha avuto senza dubbio il merito di sfamare il mondo negli ultimi 50-60 anni grazie all’introduzione di nuove tecniche agricole all’avanguardia, ma ha prodotto anche delle conseguenze, una delle quali è stata favorire la coltivazione principalmente di quelle colture che davano i risultati migliori dal punto di vista della produzione intensiva, tanto che oggi 4 tipi di colture – il grano, il riso, il mais e i semi di soia – forniscono la metà del fabbisogno mondiale di cibo, quando nel corso della storia l’uomo ha avuto a che dare con più di 7000 colture diverse. Questo mette tutti noi in una posizione difficile, perché basterebbe un periodo di crisi anche soltanto di una di queste coltivazioni (magari favorito dal cambiamento climatico in atto) per mandare all’aria tutto il sistema agroalimentare su cui ci basiamo. Per tentare di prevenire questo problema, nel 2011 il Governo della Malesia insieme all’Università di Nottingham ha dato vita al Crops For The Future (CFF), diretto da Sayed Azam-Ali, il primo centro al mondo dedicato alla riscoperta delle coltivazioni ormai inutilizzate per capire quali di queste possano essere utilizzate nel caso di una crisi di quelle principali, o anche per comprendere se in alcune parti della Terra, in particolari condizioni climatiche, qualcuna possa essere addirittura più efficiente di quelle attualmente in uso.
Un’altra conseguenza della Rivoluzione Verde è stata l’aumento esponenziale dell’utilizzo di fertilizzanti. Questi hanno avuto un impatto storico, che ha di fatto raddoppiato la quantità di cibo che siamo in grado di coltivare, grazie al procedimento di Haber-Bosch (dal nome dei due chimici tedeschi insigniti del Premio Nobel che durante la Prima Guerra Mondiale riuscirono a scoprire come sintetizzare industrialmente l’ammoniaca su larga scala), che fornisce al terreno la quantità di azoto necessaria ad aumentare il tasso di crescita delle piante. Purtroppo, il prezzo da pagare è stato che circa il 40% dei fertilizzanti usati negli ultimi sessant’anni, invece di essere assorbito dalle piante, è evaporato nell’aria o è defluito nei fiumi, causando in alcune zone di mare (ad esempio nel Golfo del Messico dove sfocia il Mississippi, o nel Golfo del Bengala) delle enormi “zone morte” dove non ci sono più forme di vita. Anche in questo caso, la ricerca scientifica sta correndo ai ripari, tendando di dar vita, ad esempio, a una specie di mais che si fertilizza da sola, oppure sviluppando, come sta facendo il C4 Rice Consortium (finanziato dalla Fondazione Bill & Melinda Gates), un tipo di riso che riesca a crescere utilizzando la fotosintesi C4, in cui l’anidride carbonica non viene catturata dalla rubisco (un enzima della terra che richiede un uso estremo di acqua e concime) ma da un altro enzima, in grado di sprecare molte meno risorse. Questa fotosintesi C4 è stata introdotta dagli scienziati i quali hanno poi osservato con grande sorpresa come si sia sviluppata autonomamente in più di sessanta specie diverse.
Questi esempi per dimostrare come il progresso scientifico sia in assoluto il nostro miglior alleato per garantire un futuro roseo all’agricoltura e, di conseguenza, a tutta l’umanità, ma anche come sia necessario continuare incessantemente a porsi dubbi e domande sul percorso che stiamo intraprendendo, così da essere pronti a qualsiasi spiacevole sorpresa. Questi discorsi ci possono sembrare distanti da noi, ma invece ci riguardano tutti, senza nessuna esclusione, per il solo fatto che per vivere siamo costretti a nutrirci. Facciamo in modo che la Giornata della Terra ci aiuti a non dimenticare mai tutto questo.